NOBILTÀ DEL LAVORO. ARTI E MESTIERI NELLA PITTURA VENETA TRA '800 E '900
Villa Pisani (STra - Venezia)
Continuando nel solco di una ricognizione a largo raggio sulla pittura dell’Ottocento veneto, che caratterizza da anni l’offerta espositiva del Museo Nazionale di Villa Pisani a Stra - Venezia (Emma Ciardi. Impressionismo Veneziano 1879 – 1933 [2009]; Ottocento veneziano [2010]; Paesaggi d’Acqua. Luci e Riflessi nella Pittura Veneziana dell’800 [2011]), scelta apprezzata e premiata dall’affluenza sempre entusiasta di un pubblico che si aggira ogni anno intorno ai centomila visitatori, la mostra Nobiltà del Lavoro. Arti e Mestieri nella Pittura Veneta tra 800 e 900, promossa dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso, organizzata da Munus e curata da Myriam Zerbi e da Luisa Turchi, dal 2 giugno al 4 novembre 2012, illustra i diversi aspetti del lavoro attraverso le raffigurazioni dei mestieri svolti a Venezia e nell’entroterra veneziano lungo tutto il secolo che segue la caduta della Serenissima fino ai primi decenni del Novecento.
In un’epoca come la nostra, preme l’esigenza di un radicale ripensamento sul senso e sul valore del lavoro. Contro il buio di spread, default, Bund e Btp, contro l’imperscrutabile economia irreale, per tornare a vedere equilibrio nella società la risposta è semplice, trasversale, globale: il lavoro che, naturalmente, è stato, è e resta valore morale essenziale che dà senso, misura e stabilità al singolo e alla collettività.
Nella selezione delle settanta opere si sono avvicinati dipinti provenienti da raccolte museali e da Fondazioni (Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma, Musei Civici di Padova, Museo Correr di Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro di Venezia, Museo Civico Bailo di Treviso, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Forti di Verona, Museo Civico di Palazzo Te, Pinacoteca Egisto Lancerotto del Comune di Noale, Fondazione Vincenzo Breda di Ponte di Brenta) a lavori conservati in importanti collezioni private, da dove escono, eccezionalmente, per la prima volta. Si realizza così il desiderio di far dialogare opere famose di maestri conclamati con lavori inediti o sconosciuti ai più, sia di autori celebrati che di pittori considerati minori, la cui arte si vuole portare a conoscenza di un pubblico più vasto perché ne possa apprezzare qualità e forza.
Tra gli autori selezionati, sono presenti i maestri che hanno contribuito a fare della storia della “pittura del vero” nel Triveneto un’eccellenza: Giuseppe Barison, Pieretto Bianco, Bernardino Bison, Eugenio Bosa, Italico Brass, Angelo Brombo, Paolo Caliari, Guglielmo Ciardi, Luigi Cima, Federico Cusin, Angelo Dall’Oca Bianca, Oreste Da Molin, Eugenio De Blaas, Pietro Fragiacomo, Cecil Van Haanen, Egisto Lancerotto, Cesare Laurenti, Domenico Mazzoni, Alessandro Milesi, Domenico Miotti, Napoleone Nani, Giovanni Nei Pasinetti, Stefano Novo, Pietro Pajetta, Antonio Paoletti, Antonio Rotta, Luigi Selvatico, Luigi Serena, Ettore Tito, Giuliano Tommasi, Cesare Vianello, Federico Zandomeneghi, Giuliano Zasso e Fausto Zonaro.
La rassegna ripercorre la vita lavorativa tra i secoli XIX e XX, attraverso opere celebri e lavori meno noti di artisti che scelgono come soggetto del loro dipingere il popolo, còlto nell’esercizio delle attività quotidiane, tra le pareti domestiche, all’aperto o nei cantieri, nel verde pacifico dei campi o nella baraonda delle città.
Dagli anni sessanta dell’Ottocento sono diversi i maestri che hanno sentito il dovere di farsi interpreti della vita contemporanea, fissando l’iconografia ottocentesca delle «Arti che vanno per via», inventario di mestieri di strada codificati graficamente nelle acqueforti di Gaetano Zompini nel 1753, repertorio di attività che, accanto alla marineria e alle tradizionali risorse dell’industria vetraria muranese e della pesca lagunare, riflettono del tempo gli usi e i costumi.
La scelta di rivolgere il loro genio artistico alla raffigurazione della realtà è guidata dalla carica rivoluzionaria del discorso pronunciato nel 1850 dal Segretario dell’Accademia Veneziana Pietro Selvatico: Sulla convenienza di trattare in pittura soggetti tolti dalla vita contemporanea. Selvatico, infatti, esorta i pittori ad entrare «nelle chiese, negli spedali, nelle officine», e a guardare al vero «nella nobile semplicità sua». Invita gli artisti con le loro immagini a «mordere gli errori sociali» per consentire all’arte di tornare ad essere apprezzata dalle moltitudini, appagate nel ritrovarsi «effigiate nella maniera del viver loro», più soddisfatte di vedere nell’opera «le lacrime e il riso sinceri del buon artigiano che non la magnanimità di Scipione». La nuova committenza borghese predilige infatti una produzione artistica in cui la bellezza è ritrovata «entro la vita fervida dei fratelli» e non «sul cadavere, per quanto gigantesco, degli avi».
La mostra di Villa Pisani a Stra conduce il pubblico in una Venezia con campi e campielli popolati dall’animazione caratteristica dei mercati, con calli, ponti e canali percorsi dal vociante passaggio di ambulanti: arrotini, venditori di caldarroste, lustrascarpe, fiorai, carbonai, burattinai, suonatori girovaghi. Le donne lavorano accanto agli uomini come bigolanti, che al grido «acqua mo» portano, con il secchio o bigol, sulle spalle, l’acqua dolce direttamente alle case; vendono polli, fiori, frutta, sono lavandaie o venditrici di zucca, o balie, cuoche, serve a servizio delle famiglie dei ricchi borghesi o della nobiltà di un tempo. Le immagini dipinte invitano a curiosare all’interno di case o di laboratori dove sartine, ricamatrici e merlettaie sono all’opera con aghi e fili, in ambienti umili dove un notaio stipula un contratto di matrimonio, dentro le botteghe dove calzolai, sarti e barbieri sono colti nell’esercizio del loro mestiere e dove gli antiquari espongono coloratissime e preziose merci o nelle fucine dove ferve il lavoro dei fabbri. Chiamano ad addentrarsi lungo le callette veneziane dove le impiraresse (infilatrici di perle) svolgono a domicilio, talora appena fuori dell’uscio, prolungamento dell’angusto spazio domestico, le loro attività con il pensiero ai compagni che sono sulle barche, fuori in mare, a pescare. Uscendo dalla laguna, il visitatore è accompagnato nel brio luminoso e nella effervescente confusione dei mercati di Badoere e Serravalle, nell’umida atmosfera di una pescheria a Chioggia, nelle campagne dove sono al lavoro mondine, contadini, zappatrici e fienaiole.
Attraverso una selezione di dipinti che coprono un arco cronologico di più di un secolo, dal principio dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento, si compie un percorso accattivante attraverso la pittura di genere di area triveneta, tracciando un reportage sulle attività della gente che, nell’operosità come nel travaglio, nella fatica come nella solerzia, nei gesti e negli sguardi diventa protagonista di una grande epopea, quella del lavoro, nella sua concreta, industriosa, sostanziale nobiltà.
Arti e Mestieri nell’obiettivo di Tomaso Filippi
Parallelamente alla mostra di pittura Nobiltà del lavoro. Arti e mestieri nella pittura veneta tra ’800 e ’900, in Villa Pisani si presenta una rassegna di fotografie storiche di Tomaso Filippi (Venezia 1852-1948) che, attraverso il suo sapiente obiettivo, restituisce usi e costumi di una Venezia in gran parte «sparita».
La mostra, ospitata nella “Casa del Giardiniere”, nel parco di Villa Pisani, è stata promossa dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso, ideata e curata da Giuseppe Rallo, con Myriam Zerbi e Luisa Turchi, ed è organizzata da Munus in collaborazione con il Fondo Filippi, che conserva l’archivio fotografico donato all’IRE (Istituto di Ricovero e Educazione di Venezia) da Elvira Filippi, ultima figlia del fotografo Tomaso Filippi, e con Daniele Resini, che ha curato la schedatura e catalogazione scientifica del vasto patrimonio - oltre 7693 lastre originali - e realizzato una mostra antologica nel 2000 alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia.
Le circa trenta fotografie illustrano - parallelamente al percorso delle pitture di «Nobiltà del lavoro», che si dipana al piano nobile di Villa Pisani - e in confronto dialettico con le opere presentate, il mondo pittoresco, e in gran parte perduto, delle attività veneziane di un tempo, in un reportage che della Venezia e del suo popolo, tra Ottocento e Novecento, profila un nitido e suggestivo ritratto.
Nella seconda metà dell’Ottocento sono in molti gli operatori che, affascinati dal nuovo mezzo espressivo, veneziani o provenienti da atelier di diverse parti d’Europa, «riproducono» monumenti e luoghi della città lungo le fondamenta, sui canali, nei campi e nelle calli.
É il momento in cui tra pittura e fotografia ci sono scambi costanti e, come dice Resini, «reciproci sconfinamenti di ruoli»: le foto in bianco e nero, forzando la loro natura documentale, vengono ritoccate per rendere con ombreggiature, vernici e solventi, la piattezza delle pennellate, e le variopinte suggestioni della città d’acqua sono colorate a mano a imitazione delle tele, mentre la pittura si servirà degli scatti, nella fase ideativa dei quadri, come fossero schizzi, utilizzando poi nelle composizioni «tagli fotografici» che renderanno le prospettive dei dipinti inedite e ardite. Proliferano in città i negozi che offrono stampe di impronta «pittorialista» e la vendita di fotografie e cartoline dell’epoca diviene per la città un’attività fiorente. Ritratti eseguiti da «fotografi di piazza», vedute e scene popolari hanno molta fortuna e sono richieste dal mercato dei forestieri desiderosi sempre di riportare in patria, come souvenir, immagini veneziane, come avviene sin dal Settecento quando i viaggiatori del Grand Tour decretarono il successo dei quadri di Canaletto e dei vedutisti.
Dopo aver lavorato nello studio fotografico di Carlo Naya come fotografo «vedutista», autore di molti dei più famosi scatti della «Casa», nel 1895 Tomaso Filippi decide di mettersi in proprio, apre uno studio sotto le Procuratie Nuove di Piazza San Marco, non lontano dal Caffè Florian e, nel suo piccolo punto vendita, offre «specialità veneziane». Il fotografo, che all’Accademia di Belle Arti di Venezia aveva ricevuto, dal 1867 al 1871, una solida formazione, realizzerà, nella serie da lui stesso chiamata «Scene e costumi veneziani», una vera e propria campagna di documentazione sulla vita e sulle tradizioni della gente di Venezia, di Chioggia e delle isole della laguna. Girando per i quartieri popolari, Castello come la Giudecca, Torcello come Burano, non teme «l’arte che tocca i cenci» e, come il Segretario dell’Accademia Veneziana Pietro Selvatico raccomandava ai pittori che diverranno protagonisti a Venezia della svolta realista, trova ispirazione per le sue opere lungo le strade della Venezia minore, meno monumentale, ma di sicuro altrettanto affascinante a quella nota e frequentata di Piazza San Marco e del Canal Grande.
Riprende per strada, con scatti rubati da fotoreporter ante litteram o mettendo in posa i soggetti, l’attività di artigiani, il lavoro delle impiraresse e degli ambulanti nelle calli, dei contadini nei campi e degli operai nelle fabbriche e mette insieme un prezioso campionario di «scene di genere» che, in parallelo con la pittura, restituiscono il paesaggio e il contesto umano della Venezia ottocentesca. I pittori «di genere» non di rado fanno proprie nelle loro tele le sue inquadrature e le «pose» dei pescatori come delle popolane al pozzo. |