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Apre al pubblico Villa Margherita a Bordighera (IM) | |
19 giugno 2011 - Villa Regina Margherita a Bordighera - tra gli edifici di maggior pregio di tutto il territorio ligure - dopo due anni di attenti e impegnativi restauri, torna al suo splendore ed apre proponendosi come un polo museale e culturale. |
Bordighera, dal 19 giugno 2011: APRE VILLA REGINA MARGHERITA E’ nella Bordighera fascinosa e romantica di metà Ottocento, eternata anche oltre Manica dal romanzo d’amore e morte di Giovanni Ruffini, ove “Terra, mare e cielo, mescolano i lor diversi colori; e dalle loro varietà, come dalle note di una ricca e piena arpa, sorge una grandiosa armonia. Atomi d'oro galleggiano nell'aria trasparente; e un'aureola color madreperla corona i taglienti contorni delle montagne”; in una Bordighera amata pure dalla famiglia di Elisabetta II d’Inghilterra e dalla duchessa di Leeds e che negli anni seguenti ispirerà il grande Monet, che Margherita di Savoia prima Regina d’Italia volle far costruire, tra il 1914 e il 1916, la villa in cui avrebbe trascorso gran parte degli ultimi anni di vita e dove si sarebbe spenta nel 1926. Nelle sale della villa ove, sotto il controllo delle competenti soprintendenze, sono stati recuperati, stucchi, tempere, parquets, vetrate artistiche, ecc. - adeguando nel contempo l’edificio ai più moderni standard museali - si dipana dunque il percorso permanente, con un progetto allestitivo di Michelangelo Lupo, teso a ricostruire l’atmosfera seducente di una dimora d’epoca. Un percorso che, se colpisce già per i numeri della collezione - concessa in comodato trentennale alla Fondazione - impressiona soprattutto per la varietà e la qualità delle opere selezionate. IL PERCORSO MUSEALE La Cappella: Tavole e fondi oro del XIV e XV secolo E’ da quella che fu la Cappella della regina madre, che si avvia il percorso permanente allestito all’interno di Villa Regina Margherita, grazie allo stupefacente nucleo della collezione Terruzzi assegnato in comodato trentennale alla Fondazione. Un percorso affascinante curato da Annalisa Scarpa, su progetto allestitivo di Michelangelo Lupo - a ricreare le atmosfere di una dimora d’epoca - che sorprende per la quantità e la varietà d’opere d’altissimo livello che il visitatore potrà scoprire: oltre centosettanta dipinti dal XIV al XVIII secolo - grandi nomi della pittura italiana ed europea e opere di scuola di grande qualità - strepitosi arredi antichi, ceramiche e porcellane europee ed orientali argenti e manufatti preziosi. L’atmosfera mistica che si respira nella cappella - costituita dalla piccola area dell’altare, sopraelevata di tre gradini e posta in una nicchia chiusa da vetrate a piombo, e dallo spazio antistante che al tempo della sovrana veniva messo in comunicazione in occasione della messa - è parsa congeniale ad alcuni importanti dipinti del Quattro e Cinquecento della Collezione. Mentre dunque sull’altare è collocata una Crocifissione, acquistata appositamente per la villa (forse dallo stesso architetto Broggi) presso l’antiquario Rambaldi a Bologna, nella sala si possono ammirare alcune preziose tempere su tavola a fondo oro, come la Crocifissione con Maria e Sant’Antonio Abate di Niccolò di Pietro Gerini, pittore toscano documentato dal 1366 al 1416 - elegante seguace della scuola giottesca, di cui sono documentati numerosi lavori in terra toscana - e la Madonna con Bambino di Giovanni del Biondo, segnalata alla critica da Federico Zeri che l’aveva scoperta nel 1951 in una collezione privata. Proveniente alla collezione Chalandon di Lione e successivamente da quella Salocchi di Firenze, la tavola è uno splendido esempio dell’arte del pittore toscano che, nato a Pratovecchio, in terra casentina, ante 17 ottobre 1356, operò attivamente soprattutto a Firenze dove morì il 19 ottobre 1398. L’alta qualità del dipinto - come spiega Annalisa Scarpa, nel saggio del catalogo Skira dedicato alla Fondazione Terruzzi-Villa Regina Margherita, di cui qui proponiamo una sintesi - è sottolineata dalla buona conservazione dello strato pittorico, nei disegni minutissimi che decorano l’orlo del manto della Vergine e il suo velo trasparente così come la veste del Bambino. Speculare a questa, sulla parete maggiore, sta una Madonna con il Bambino tra i Santi Simone Zelota e Leonardo opera di Bicci di Lorenzo (tempera, lacca e oro su tavola, 114 x 59,2 cm), maestro fiorentino nato nel 1373 e morto nel 1452, esponente di spicco di una prestigiosa famiglia di artisti che occupò il palcoscenico fiorentino per circa un secolo. Lasciò una preziosa testimonianza del mondo artistico del tempo, un diario scritto di proprio pugno – le Ricordanze – ora custodito nella Biblioteca degli Uffizi. La tavola qui esposta è databile intorno alla metà degli anni Venti del Quattrocento, al culmine quindi della prolifica attività del pittore, che prese le redini della bottega di famiglia nel 1405. Al centro della parete campeggia invece il Compianto su Cristo morto (tempera e olio su tavola, 252 x 163 cm), grande tavola eseguita da Bernardino Fasolo, figlio e collaboratore di pavese Lorenzo, stimatissimo esponente dell’arte lombarda della seconda metà del Quattrocento e dal 1490 tra gli artisti convocati per decorare una grande sala nel Castello Sforzesco, a Milano, in onore della doppia ricorrenza dei matrimoni di Lodovico il Moro con Beatrice d’Este e di Alfredo d’Este con Anna Visconti. Lorenzo nel 1494 si trasferisce a Genova portando con sé il figlio Bernardino che nel 1511, pur continuando a lavorare anche con il padre, risulta già attivo in proprio. La sua maturazione, con una certa conoscenza delle invenzioni raffaellesche, avverrà tuttavia negli anni successivi, come mostra la Natività della Pinacoteca Malaspina di Pavia, eseguita, certamente in Liguria, forse per la chiesa di San Francesco a Chiavari nel 1521, che presenta ampi contatti stilistici con il Compianto della Fondazione Terruzzi-Villa Regina Margherita, nonché una dimensione assai simile. Merita sicuramente una citazione infine la delicata Santa Caterina Martire di Bartolomeo Vivarini (tempera su tavola trasportata su tela) la cui storia novecentesca vede passaggi attraverso collezioni prestigiose come la Simonetti di Roma, la Spiridon di Parigi,la Contini Bonacossi di Firenze. Il trasporto della superficie pittorica da tavola su tela aderita su nuovo supporto ligneo deve essere avvenuto intorno alla metà del secolo scorso ed ha comportato un leggero ampliamento della doratura nel lato sinistro, dove compare la ruota, simbolo, con la palma, del martirio della santa. Analisi stilistiche e una certa corrispondenza delle dimensioni hanno suggerito giustamente di accostare la nostra tempera al Polittico di Sant’Ambrogio, originariamente nella chiesa di Sant’Aponal ed ora alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, eseguito da Bartolomeo nel 1477. Bartolomeo, muranese, nasce probabilmente intorno al 1430, è documentato dal 1450 al 1491, ed è considerato uno degli esponenti di spicco della bottega tardogotica vivarinesca guidata dal fratello maggiore Antonio (1420c.- 1483c.), con il quale collaborò a lungo, e nella quale si formò il nipote Alvise. Le sale del piano rialzato Lasciando la cappella entriamo nel salone centrale, lungo le cui pareti si snoda una vera e propria monografica magnaschesca. Tra gli arredi spiccano due splendidi tavoli da muro in legno intagliato e dorato con piano in marmo, di manifattura genovese (1725-35), e un cassettone di area piemontese con cornici intagliate e dorate (XVII secolo). Al centro della sala di grande interesse è una coppia di globi, terreste l’uno, celeste l’altro, realizzati nel 1882 da H.Kiepert su disegno di Carlo Adami. Le tele alle pareti sono una campionatura estremamente rappresentativa della poetica di Alessandro Magnasco, detto il Lissandrino, nato a Genova il 4 febbraio 1667 e morto nella stessa città, ottantaduenne, nel 1749. E’ sullo scorcio del Seicento secolo che Magnasco - di cui in Villa vi sono altre importantissime opere anche nelle sale successive - iniziò a dedicarsi a quella pittura di genere (Riunione di quaccheri, Processione di cappuccini, e temi similari) che lo rese ben presto famoso: il suo stile a figura in scala ridotta al confronto con imponenti elaborazioni scenografiche diventa un unicum nella pittura del tempo e imposta una moda che sedusse committenti di grande prestigio, ad iniziare dal Gran Principe Ferdinando de’Medici. Presente a Firenze dal 1703 al 1709, vi incontrò Sebastiano Ricci, che già aveva conosciuto verso la metà degli anni Novanta, e si mise goliardicamente in competizione con lui, elaborando entrambi paesaggi con monaci e frati in preghiera di struttura e resa assolutamente similare. La sua vastissima produzione, che copre un arco di circa sessant’anni, spazia dal paesaggismo ai soggetti sacri, dal ritratto al capriccio, rivelando uno stile personalissimo, una capacità d’interpretazione dell’elemento naturale assolutamente inedita, tradotta in pittura con una pennellata sfrangiata e grassa, con una materia cangiante e accesa qua e là da lampi di luce che seducono con la loro valenza onirica. “L’arte di Alessandro Magnasco - ricorda la curatrice - è quasi fuori del tempo, eterna e indefinibile, fatta di emozioni tradotte in pittura, seducente e ricca come le più poeticamente alte tra quelle del Settecento italiano”. Lasciato il salone, mentre vediamo a destra quella che in passato fu la biblioteca della regina e che ora, intatta e restaurata, vede lo spazio del bookshop, il percorso museale ci accompagna nella sala a suo tempo destinata alle udienze, dove troviamo alle pareti due grandi quadri di Paolo De Matteis (1662-1728), che fu tra i più fertili degli allievi di Luca Giordano, Rinaldo e Armida e Ulisse scopre Achille tra le figlie di Licomede. Pittore che operò non solo a Napoli, ma a Roma, a Genova e in molte città d’Europa, egli realizza uno stile che evolve in voce barocchetta la lezione del maestro, schiarendo le tinte con accenti brillanti. Suo anche il Trionfo di Nettuno e Anfitrite sulla parete a lato della porta d’accesso, dove si accompagna ad una Erminia tra i pastori di Francesco De Mura (1696-1782), anch’egli napoletano, che ebbe la sua formazione, ad iniziare da quando aveva solo dieci anni nella bottega di Francesco Solimena. Questa sala c’introduce a quella che era definita “sala di ritrovo”, ricca, come la precedente, di stucchi dorati e quadrature a monocromo sanguigna riproducenti le residenze reali più amate. Sottolineando l’amore per Napoli della regina, anche qui, come nella precedente, torna l’arte partenopea: tre tele di Luca Giordano (1634-1705), due delle quali di importanti dimensioni, decorano le pareti, con tutta la forza dell’arte prepotente di questo artista che, partendo da suggestioni caravaggesche e riberiane, divenne la spinta propulsiva del rinnovamento settecentesco dell’arte italiana influenzandone l’evoluzione in tutte le scuole, compresa quella veneziana. Completa le pareti ancora Napoli, con due Nature morte con pesci di Giuseppe Recco (1634-1695), esponente di una dinastia di naturamortisti che comprende Giacomo, il padre, Gian Battista, lo zio e i figli Elena e Nicola Maria. A sottolineare la sontuosità della sala, laddove un tempo spiccava “Avanzi di valanga” di Lorenzo Delleani acquistato dalla regina alla IV Biennale di Venezia nel 1901, è appeso ora un grande arazzo fiammingo del XVII secolo con la storia di Orfeo ed Euridice. Completano l’arredo, tra l’altro, porcellane cinesi del XVIII secolo, due Céladon con montature in bronzo dorato e due, ugualmente cinesi, in blu e oro, e un bureau en pente dell’ebanista francese Jacques Dubois (1693c. -1763). La sala da pranzo, circondata tutt’intorno da una boiserie con inserti di marmo, è stata dedicata all’esposizione di una parte dei servizi di porcellana orientale della collezione del Museo, tra cui troviamo un servizio cinese da tavola in porcellana di 149 pezzi del XVIII secolo, una coppia di grandi cache-pots ugualmente settecenteschi con decoro a peonie in porcellana ricoperta di smalti policromi, posizionati a terra, e, sulle consolles volute dalla regina, due coppie di potiches Imari, una coppia di rinfrescatoi, mentre sulle pareti corrono ancora piatti cinesi del XVIII secolo. Per raggiungere il piano superiore il percorso ci obbliga a passare per un largo corridoio dove sono posizionati un quadro di Giovanni Baglione (1566-1643) raffigurante una Danae e un ispirato Uomo con turbante, a mezzo busto, molto probabilmente uno dei Magi, Melchiorre, di Giambattista Gaulli detto il Baciccio (1639- 1709). Lo scalone Affrontando lo scalone per salire al piano superiore incontriamo le prime delle grandi sei tele verticali realizzate da Bartolomeo Bimbi che ritmano tutte le rampe, intercalandosi con altrettanti Busti di imperatori romani del Settecento, in marmi policromi, su pilastri, che poggiano scadenzati sui pianerottoli. Bartolomeo Bimbi (1648-1730) è un toscano di grande talento che si formò a Roma, alla scuola di Mario dei Fiori, divenendo uno dei naturamortisti preferiti di Cosimo III de’Medici prima e della figlia Maria Luisa poi, con un repertorio che spaziava in ogni forma della natura rappresentabile, con grande precisione scientifica, grazie anche agli specialisti che i Medici gli affiancarono, come il botanico di corte Antonio Micheli. Le tele, serie unica nel suo genere, rappresentano ciascuna un insieme di tipologie di uccelli, quasi fossero la visualizzazione di un repertorio di ornitologia. L’allestimento dello scalone cita con umiltà l’omaggio del pittore a Cosimo III nella Villa La Petraia, che il granduca volle “tutta adorna di quadri rappresentanti al vivo”, lì erano frutti e ortaggi, qui animali, ma sempre parto di quella stravagante e bizzarra mente inventiva del gioioso pittore toscano. Le sale del primo piano Si raggiunge così il salone del primo piano dove alle pareti ci si ricollega al genere che accompagna lo scalone. Una serie di nature morte tra le quali va certamente citata la presenza di una Ghirlanda di frutti con allegoria dell’Estate, opera a quattro mani di Baccio del Bianco (1604-1656) e di Felice Ficherelli detto il Riposo (1605-1660), percorre le pareti. Vi ritroviamo tra l’altro una coppia di opere del Maestro della Fruttiera Lombarda, misterioso quanto affascinante artista lombardo sul quale si sono concentrate le attenzioni anche di due “mostri sacri” degli studi sulle nature morte, Federico Zeri e Mina Gregori. Mazzi di fiori escono dalle tele di Michele Antonio Rapous (1730-1819), mentre accostate alle pareti, sono posizionate due trionfali commodes portoghesi in legni vari di frutto con intarsi ed applicazioni di bronzo dorato della metà del XVIII secolo, di particolare impatto e qualità. Al centro del salone si impone il bureaucabinet dell’atelier di Pierre Mignon IV (1696-1758), grande scrivania a doppia ribalta realizzata a Parigi intorno al 1740 in legno di amaranto con intarsi di bois satiné e applicazioni di bronzo dorato. Le si affianca una coppia di globi della fine del Settecento, uno terrestre e l’altro celeste degli anni a cavallo tra Sette e Ottocento, disegnati a penna e dipinti su carta incollata su un supporto cartonaceo rigido, di 130 cm di diametro, montati su supporto ligneo. La prima sala a destra, seguendo il percorso del primo piano, era in passato destinata ad “alloggio per i membri della famiglia reale” che avessero soggiornato in villa. L’allestimento attuale vi vede posizionati alcuni dei pezzi più suggestivi della quadreria: subito a destra un Cristo alla colonna di scuola caravaggesca, per il quale si era in passato avanzato anche il nome del maestro, dialoga con una Adorazione dei pastori di un giovane Jusepe de Ribera detto Lo Spagnoletto (1591-1652) incastonato in un’imponente cornice dorata secentesca. Ai suoi piedi un lit de jouer di manifattura francese, epoca Retour d’Egypte, inizi del XIX secolo, in legno di mogano, con applicazioni in bronzo. Adiacenti a questa sala erano dei bagni, esistenti ai tempi della progettazione del Broggi, ma che avevano subito rimaneggiamenti successivi che ne avevano confuso i caratteri originali. In accordo con le Soprintendenze competenti si sono trasformati questi spazi in sale espositive, dove trovano collocazione, in uno, due dipinti di Jusepe de Ribera raffiguranti San Gerolamo leggente e un Santo in preghiera e due grandi orologi a cassa lunga di manifattura francese della metà del XVIII secolo nonché una collezione di 16 vasi in porfido montati in bronzo (XVIII secolo) in vetrina angolare, e nell’altro due splendidi dipinti genovesi di consistenti dimensioni: una Allegoria con Venere, Vulcano ed Eros di Alessandro Magnasco, uno dei rari dipinti a figure grandi del bizzarro Lissandrino e un Gesù tra i dottori di Giovan Battista Merano (1632- 1698 c.) pittore ligure pupillo di Valerio Castello, che lavorò a lungo anche alla corte dei Farnese a Parma. Sulla parete minore infine, sotto un orologio Cartel francese in lacca e bronzo dorato, s’incontra un Loth e le figlie di Domenico Fiasella (1589- 1669), ligure dell’area delle Cinque Terre, che abbandonò la terra d’origine per trasferirsi a Roma dove entra in contatto con Orazio Gentileschi. Gli anni più maturi tuttavia, dal 1617, egli li spende in Liguria dove la completezza artistica acquisita a Roma gli procurò importanti commissioni ed estimatori. segue la sala d’angolo, destinata in origine ad “alloggio per la dama di servizio”, contiene alcuni capolavori assoluti dell’arte ligure del Seicento. Gioacchino Assereto (1600-1649) è rappresentato con tre tele di grande impatto emotivo: Ioas salvato dalla persecuzione di Atalia, Ioram riceve lo scettro di Elia, di soggetto biblico assai desueto e quindi molto probabilmente eseguite espressamente su particolare commissione, e una delicata Sacra Famiglia con San Giovannino e San Pietro. Sulle altre pareti troviamo due figure femminili a mezzo busto, una Santa Caterina d’Alessandria di Bernardo Strozzi e un raro Ritratto di gentildonna di Alessandro Magnasco. Completano l’arredo della sala vasi in marmo rosa montati in bronzo, due zuppiere cinesi con coperchio, del XVIII secolo ed una tureen Sèvres, Manufacture Royale, in porcellana, con presentatoio, una coppia di cassettoni lombardi della metà del Settecento ed una consolle romana della stessa epoca, in legno scolpito e dorato con piano di marmo verde Alpi. La stanza successiva era lo “studio personale della Regina”, preceduto da una piccola anticamera dove ora alla parete è una Natura morta con cesto d’uva di Frans Snyders (1579c.-1657). Allievo inizialmente di Pietre Bruegel il Giovane e di Hendrick van Balen poi, lo Snyders lasciò Anversa per un paio d’anni per un viaggio formativo a Roma e a Milano dove entrò nelle grazie del Cardinale Federico Borromeo. Lo studio della regina vede alle proprie pareti dipinti di area nordica, tra cui il Banchetto degli dei del tedesco Hans Rottenhammer (1564-1625) e l’ Allegoria del Fuoco: Venere nella fucina di Vulcano di Jan Brueghel II (1601-1678) ed Henrick van Balen (1575-1632). Tra gli arredi troneggia un’imponente Scrivania con alzata di manifattura nord-italiana databile 1730-1740, in rovere, con applicazioni in bronzo e ben 42 incisioni a découpage sul fronte dei cassetti. Nella “camera da letto della regina” è collocato un grande letto a baldacchino che ricorda quello che tuttora è vedibile nella camera destinata a Margherita a Palazzo Pitti. Una coppia di piccoli Cassettoncini intarsiati con motivi a losanga, lastronati in bois de rose e bois de violette, di manifattura romana, e un Bureau en pente della metà del XVIII secolo completano la stanza, alle cui pareti sono dipinti della seconda metà del Settecento: tre Paesaggi con marine, firmati, opere di Jean- Baptiste Lallemand (1716-1803), paesaggista francese Accademico di San Luca, e Monocromi con putti di Piat-Joseph Sauvage (1744-1818). Alle pareti del Cabinet de toilette sono appese Nature morte con fiori di Giovanni Stanchi “dei Fiori” (1608-1675c) e di Vittorio Amedeo Rapous (1728-1789). Il percorso prosegue con il secondo “alloggio per membri della famiglia reale”, l’ultima stanza nell’angolo, dove hanno trovato collocazione dipinti francesi di figura e di paesaggio. Notevoli i due rami ovali firmati di Charles Joseph Natoire (1700-1777) con Pan e Siringa e Venere e Adone che con il recente restauro hanno ritrovato la brillantezza e la pulizia cromatica proprie dell’artista; si affianca a questi una Danae di Jean-François de Troy (1679-1752). L’ultima sala del piano è stata ricavata da una toilette rimaneggiata nel corso degli anni successivi alla donazione della villa all’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi in Guerra. Vi troviamo tra l’altro, come in molte sale di questo piano, tele di scuola francese, come le Lavandaie alla fontana in un parco di Hubert Robert (1733-1808) e due capricci di Jacques de la Joue (1687-1761), Eleganti figure presso una fontana e Rovine con figure eleganti in un paesaggio, entrambi firmati. Tra gli arredi della stanza spicca uno degli oggetti più curiosi del museo, un Magot in porcellana policroma di Meissen degli anni a cavallo tra XVIII e XIX secolo. I Magot erano dei statuette animate che, grazie ad un meccanismo che lasciava libere di muoversi testa e mani ad ogni minima vibrazione, fungeva in Giappone da campanello d’allarme per i terremoti. Le sale del secondo piano Risalite due rampe di scale, si giunge all’ultimo piano della villa. Il grande salone centrale è interamente occupato dal Servizio Minghetti, imponente nei suoi 381 pezzi di ceramica, realizzati dalla famosa Manifattura bolognese per il Duca di Montpensier Antonio d’Orléans, figlio cadetto di Luigi Filippo d’Orléans nel 1888. Le monumentali dimensioni e l’eccelsa qualità esecutiva, nonché il numero dei pezzi dell’intero servizio, ne fanno un capolavoro dell’artigianato d’eccellenza di produzione italiana, unico al mondo nel suo genere. Dopo il salone incontriamo, a destra, una delle Camere per gli ospiti, quella in cui alloggiava l’architetto Broggi quando era in visita alla Regina a Bordighera; alle pareti ritroviamo ancora dipinti di Magnasco, uno dei pittori più amati dalla famiglia Terruzzi, ed esempi del migliore paesaggismo italiano del Settecento, con opere del romano naturalizzato fiorentino Paolo Anesi (1697-1773) e del fiorentino Giuseppe Zocchi (1711-1767). La ricchezza di questa sala è evidenziata dall’importanza dei mobili francesi che vi sono esposti: una coppia di Commodes stile transizione, con pannelli in lacca cinese Coromandel e applicazioni in bronzo dorato databili 1770-1780, e una Commode a sportelli con similari applicazioni realizzata da Pierre-Henri Mewesen e Adrien Faizelot-Delorme, databile anch’essa 1770-1780, maestri ebanisti dal 1760. Come nel piano sottostante, le due sale seguenti sono state ricavate da vecchi bagni rimaneggiati. In esse sono esposte, alle pareti, in una Nature morte di Carlo Magini (1720-1806) e di Luigi Scrosati (1814-1869) e in una vetrina d’angolo un servizio di piatti di Sèvres, di Manufacture Royale a fondo bleu-turquoise, composto di 27 pezzi e databile intorno al 1760; nell’altra un grande dipinto del parmense Sisto Badalocchio (1585-1647) raffigurante Rinaldo abbandona Armida, ricco di tutta la sua evidenza carraccesca, e un intrigante Plutone e Anfitrite attribuito ad Agostino Carracci (1557-1602). Nella seconda “Sala per ospiti” dominano due tele di grande fascino: un’ Allegoria della Pittura e del Disegno del carraccesco Benedetto Gennari (1633-1715) e una scena d’interno con Giocatori di Carte del lucchese Pietro Paolini (1603-1681), allievo di Angelo Caroselli ed emozionante caravaggista della prima ora. Oltre ad una Coppia di Commodes bombate in radica, l’arredo più suggestivo di questa sala è un’elegante Scrivania ferrarese del Settecento, aerea nella gambe sottili, elegantissima nella struttura superiore a cassetti e segrete. Coppie di grandi Coppe da punch cinesi, in porcellana e smalti policromi ed altre due Coppe con montature di bronzo dorato e smalto blu sottocoperta, completano l’arredo della sala. Il percorso prosegue in quello che un tempo era l’appartamento della Dama di Palazzo di Margherita, che fu prima Paola Pes di Villamarina e successivamente sua figlia Maria Cristina. Nella prima sala ritroviamo la pittura emiliana, con due opere splendide di Giuseppe Maria Crespi (1665-1747): Il Ritrovamento di Mosé e L’Adorazione dei Magi. Nella seguente compare un pittore che è molto amato dai collezionisti che hanno concesso al museo le opere di loro proprietà: Francesco Londonio (1723-1783): due sue notevoli Scene pastorali, d’imponenti dimensioni si affiancano ad altre sei di minori dimensioni, unitamente a una decina di incisioni ad acquaforte, tecnica nella quale l’artista lombardo era maestro. Fanno da corredo all’allestimento di questo ambiente, tra l’altro, due Commodes di manifattura francese, databili 1760, con intagli di legni vari à ramages con importante medaglione centrale, due vasi cinesi con coperchio a sezione esagonale, della Dinastia Qing, Era Khangxi. Jean-Baptiste Oudry (1686 -1755) è il protagonista della sala successiva. Figura di spicco del naturamortismo francese Sei-Settecentesco, Oudry vede qui esposta una serie di quattro di quei pannelli raffiguranti volatili per i quali divenne giustamente famoso in Europa. Un prezioso Bureau-plat francese del XVIII secolo in bois de rose con filettature e applicazioni in bronzo contribuisce a simulare l’atmosfera da studio della stanza. Quella che era la vecchia sala del Gentiluomo di servizio ci accompagna verso il termine della visita e in essa ci accoglie il clima caldo del paesaggismo romano del Seicento: nei Paesaggi del romanissimo Andrea Locatelli (1695-1741) come in altri del fiammingo naturalizzato romano Hendrik Frans Van Lint (1684-1763) respiriamo un’atmosfera analoga, fatta di sfumature di luce e di colore, che si sposano,nella loro solarità, con le pulviscolari rifrangenze che traspaiono dalle vetrate di Villa Margherita. |
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