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Radici eticosociali ed estetiche della poesia moderna Radici eticosociali ed estetiche della poesia moderna
Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia quand’ella altrui saluta/…/ che li occhi no l’ardiscon di guardare.

Alessandro Cabianca è stato un importante compagno e amico del viaggio di ricerca intrapreso con Milanocosa all’inizio degli anni 2000, di cui è stato referente di un adiacente gruppo veneto, che a Padova in particolare ha curato e organizzato non poche iniziative.

È un abbrivo non gratuito o cortese della lettura di questo romanzo, perché della visione interdisciplinare di ricerca intorno alla poesia (quale ha animato nell’arco di tre decenni il progetto e le cento e più iniziative di Milanocosa), l’appassionato viaggio intorno alle vicende umane e creative di Uc (Ugo) de Saint Circ ci arricchisce di conoscenza delle radici della poesia moderna.

Dobbiamo peraltro sottolineare che il personaggio di cui Alessandro ci narra la vita e la ricerca estetica è ignoto alla quasi totalità degli scriventi versi contemporanei, per cui il libro è – e lo è stato anche per me – una preziosa fonte di coscienza del proprio fare, almeno per coloro che non si accontentano di travasare in segni sul pc o sulla carta, la fioritura di emozioni e riflessioni, interessati alla catena di forme creata nei secoli e millenni di questa immensa Cosa, chiamata Poesia.

Il romanzo di Alessandro è, appunto, il progetto di fare della vita di Uc una rilevante illuminazione su tale Cosa, un monumento teso a sollecitare la coscienza di come essa, al pari di ogni altra forma di vita, sia frutto di una evoluzione, senza di che non attraverserebbe il Tempo, ma ne verrebbe sepolta. Per cui, pretendere di arricchirla o conoscerla senza riconnetterla alla sua storia, rimane un povero e ignaro esercizio ombelicale, che evaporerà – come capita, ahimè, a gran parte del poetese, quale definito da Raboni – poco dopo la pubblicazione o alla scomparsa del suo autore.

Questa premessa mi è parsa necessaria per inquadrare il valore di questo libro, che è delimitante definire Romanzo. Aggiungerei l’aggettivo storico, perché, al pari di altri e alti esempi, si fonda su una accuratissima mole documentale di storia. Ma a questa va aggiunta la ricerca poetica, talché direi che la sua qualificazione più completa sarebbe di romanzo intorno alle radici storiche della poesia.

Ed è in tale quadro che si misura la cifra stilistica della narrazione dell’Autore, che sa coniugare fedeltà storica realistica e ricostruzione visionaria. Cifra che è il segreto per cui il testo rende viva la concatenazione delle vicende avventurose quanto tragiche, entro le quali è protagonista il poeta trovatore provenzale Uc de Saint Circ (1190-1253).

È un poeta di cui Cabianca condivide profondamente la poetica, e per questo ne sa rendere la ricerca complessa, che si nutre del minimo e dell’immenso, con uno sguardo, etico-critico rivolto agli orrori della storia che sta vivendo, entro una tensione estetica oltre le orme e forme precedenti nella lingua (latina) della tradizione, per la passione creativa di una poesia che sappia dire e far cantare nella lingua viva del tempo vissuto.  

Una visione e tensione di Vita Nuova, totalità di cui fare materia nella nascente Lingua Nuova che poi con Dante, 1265-1321 (nato dunque due anni dopo la morte di Uc), raggiunge il più compiuto splendore. Cabianca sottolinea, in questo libro, una sorta di passaggio testimoniale dal seme coltivato da Uc, alle fioriture e frutti del Dolce stil novo, di riaffermazione della vita umana rispetto alle sue negazioni, quale anima di tutta la letteratura che seguì, a partire da quei decisivi secoli cardine.   

Il testo focalizza tale arco temporale quale sua materia costitutiva, per cui ci prende gola e cuore sin dalle prime righe, facendone palpabili corpo e anima del protagonista:

“Uc de Saint Circ si guardò intorno, vide un cavallo con le briglie abbandonate a terra, salì in groppa e uscì come un fulmine dalla porta ovest della città, troppo aveva veduto per rimanere anche solo un minuto di più in della carneficina. In un lampo fu nel folto della boscaglia. E adesso?...si disse: ‘Lontano, il più lontano possibile, via dalla città, dalla distruzione, dalla morte’. Uc aveva messo tutto l’entusiasmo e la foga dei vent’anni per combattere l’eresia…con la viella e mai con la spada” (p.5)

 Ci sentiamo così da subito accanto al protagonista e immersi nell’orizzonte del contesto, presi al laccio della narrazione delle vicende che seguiranno. Dove siamo? In Occitania, regione francese sudorientale, in cui è Caorsino (attuale Cahors), borgo natio di Uc. Il quale, da “buon cristiano”, fugge travolto dal disgusto di  eccidi della prima crociata a caccia di Albigesi “eretici”. Il testo ci immette così nel clima di orrori, sui quali letteralmente vomita la sensibilità umana di Uc, offrendone un realistico documentato resoconto:  

“città di Béziers…attaccata e distrutta”, da crociati al soldo e al servizio del vescovo Ildeberto, e degli ordini del papa, in seguito al ”rifiuto dei suoi abitanti…di consegnare ai crociati i circa duecento sospetti di eresia…di cui un altro vescovo, Renaud de Montpeyroux, aveva stilato la lista. Dopo la conquista Arnaldo, insieme all’altro legato pontificio, Milone, scrisse al papa…la più sconvolgente delle lettere: ‘La città di Béziers fu presa e, poiché i nostri non guardarono a dignità, né al sesso, né ad età, quasi ventimila uomini morirono di spada. Fatta così una grandissima strage di uomini, la città fu saccheggiata e bruciata: in questo modo la colpì il mirabile castigo divino’ (p.7)

Il cammino concreto, umano e culturale di Uc, parte da qui, e segna tutto il suo percorso, di rifiuto di tali abbrutimenti, quale promessa alla propria dignità: “si disse che mai più, nella vita, avrebbe eseguito degli ordini”, e che “chi ammazza in nome di Dio è il peggiore degli assassini” (p.6). Da qui nasce la sua poetica, come segno di resistente riaffermazione di vita più degna.

E del suo percorso umano, creativo e geografico, il romanzo è anche una sorta di appassionata biografia, che segue le peregrinazioni di Uc, trovatore e giullare, quale si propone alle corti di conti, marchesi e altre signorie che ne apprezzavano il talento letterario e musicale, in poesie, canzoni e sirventes, o componimenti in omaggio.

Le sue avventure, più o meno fortunate, attraversano Francia e Spagna, per poi giungere in Italia, prima in Lombardia e infine in Veneto, a Treviso, dove trovò anche moglie, insieme ad accoglienza, apprezzamento e protezione presso Alberico da Romano.

Alberico, era a sua volta trovatore e poi podestà, personaggio influente della famiglia degli Ezzelini (fratello di Ezzelino), finché scomunicati dal papa Alessandro IV, le truppe di quest’ultimo nel consueto furore di croci a caccia di streghe con crociate di odio antiumano, sterminarono nel 1260 tutta la sua famiglia, adulti e figli, bruciati vivi e decapitati, tra altri orribili scempi.  Uc, morto sette anni prima, non assistette a tali ulteriori orrori, perpetrati in quei secoli dalla Chiesa cattolica, sempre in nome di Dio.

Per cui anch’io, vinto dalla ricchezza vitale riaffermata ciononostante tramite la linfa da un poièin così inteso, chiudo questa mia sintesi dei sensi trasmessi da questo libro di ricerca e amore di poesia, con alcuni versi di Uc di Saint Circ, ai quali faccio seguire i primi versi dell’immortale sonetto di Dante, che credo mostri quanto quel seme di temi, ritmi e suoni sia stata eco raccolta ed esaltata da quest’ultimo:

Gent an sabut miei oill venser mon cor/…/ et eu mos oills e-l cor a vencut me:/ que mos cors vi e-ls celleis per que/ moron mei oill, et eue-l cors en mor

(I miei occhi han saputo dolcemente vincere il mio cuore/ e io ho vinto i miei occhi e il mio cuore ha vinto me:/ perché gli occhi ho visto di colei per cui/ muoiono i miei occhi, e ne muoio io e il cuore) (p.44)*

Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia quand’ella altrui saluta/…/ che li occhi no l’ardiscon di guardare

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