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A Firenze la mostra di sculture e disegni di Giuliano Vangi | |
22 settembre 2012 - Presso la Galleria Frediano Farsetti di Firenze, la mostra dedicata alle sculture ed ai disegni di Giuliano Vangi, artista nativo di Barberino del Mugello |
GIULIANO VANGI Sculture e disegni - Veio 22 settembre – 18 novembre 2012 Giuliano Vangi Nato a Barberino di Mugello (Firenze), il 13 marzo 1931, Vangi ha studiato all’Istituto d’Arte, allievo di Bruno Innocenti, e all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Dal 1950 al 1959 ha insegnato presso l’Istituto d’Arte di Pesaro. Tra il 1959 ed il 1962 si trasferì in Brasile, dove eseguì opere astratte, utilizzando cristalli, ferro e acciaio. Espose alla Biennale di San Paolo, vinse il Primo Premio al Salone di Curitiba e tenne una mostra personale al Museo d’Arte Moderna di San Paolo. Tornato in Italia, si stabilì a Varese e ottenne una cattedra all’Istituto d’Arte di Cantù; poi si trasferì a Pesaro. Qui ritornò allo stile figurativo, concentrando le sue ricerche sugli stati d’animo dell’uomo contemporaneo. Dotato di una solida tecnica, egli seppe infondere alle sue sculture una straordinaria forza espressiva ed emotiva. I suoi personaggi ci trasmettono con immediatezza i loro sentimenti più profondi: gioia o dolore, paura o serenità, amore o odio, amicizia o solitudine, speranza o disperazione. Le sue sculture si ispirano ai grandi modelli del passato, ma nello stesso tempo utilizzano un linguaggio moderno e originale. Lo spettatore rimane affascinato dal morbido, raffinato modellato e dalla minuziosa cura dei particolari. In una recente intervista Vangi ha detto: “L’uomo di oggi e la sua lotta contro un mondo ostile resta comunque il tema fondamentale della mia opera, tutto il resto m’interessa poco. Voglio raccontare i suoi conflitti interiori e i problemi che affronta a livello sociale, solo così sento di essere a posto con la mia coscienza: aver ‘raccontato’ qualcosa che riguarda tutti gli uomini e non essermi limitato alle mie piccole gioie o dolori personali”. Nella sua carriera Giuliano Vangi ha esposto con successo in molte sedi prestigiose, in Italia e all’estero. Tra le principali ricordiamo la mostra personale a Palazzo Strozzi di Firenze nel 1967, organizzata da Carlo Ludovico Ragghianti, la mostra itinerante ad Hannover, Wurzburg, Kiel, Colonia e Lisbona nel 1970, l’esposizione ad Hakone, Tokyo, Osaka e Città del Messico del 1972, la personale alla Galleria d’Arte Moderna di Torino e alla Permanente di Milano nel 1977, la grande retrospettiva al Castel Sant’Elmo di Napoli nel 1995 e quella al Forte Belvedere di Firenze nel 1995, l’esposizione al Museo degli Uffizi di Firenze intitolata “Studi per un crocifisso e opere scelte 1988-2000”, nel 2000 e la mostra personale all’Ermitage di San Pietroburgo nel 2001. Ha partecipato più volte alle edizioni della Biennale di Venezia, della Quadriennale di Roma e della Biennale di Scultura di Carrara. Nel 2002 vinse il Premio Imperiale per la Scultura della Japan Art Association di Tokyo. Ha fatto parte dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, dell’Accademia di Santa Lucia e dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon di Roma. Molte sue opere si trovano in ambienti pubblici, collocate in contesti prestigiosi, come la statua di San Giovanni Battista a Firenze, posta tra Via de’ Bardi e Lungarno Torrigiani, vicino a Ponte Vecchio (1996), la Lupa in Piazza Postierla (o dei Quattro Cantoni) a Siena (1996), il Crocifisso ed il nuovo Presbiterio nella Cattedrale di Padova (1997), la scultura in marmo intitolata “Varcare la Soglia” posta al nuovo ingresso dei Musei Vaticani (1999-2000), il nuovo altare e il relativo ambone del Duomo di Pisa (2001), una scultura in legno policromo per la Sala Italia di Palazzo Madama a Roma, “Donna in movimento” in una piazza del centro di Pontedera, “Noli me tangere”, un ambone in pietra garganica sul tema di Maria di Magdala nella chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo (2004), la nuova cappella del cimitero comunale di Azzano (LU), ideata insieme all’architetto Mario Botta, con il quale ha collaborato anche al santuario di Papa Giovanni XXIII a Seriate. Giuliano Vangi è l’unico scultore vivente ad avere un museo a lui dedicato, a Nagaizumi-cho, Shizuoka, presso Mishima, in Giappone, inaugurato il 28 aprile 2002 (www.vangi-museum.jp). Le sue opere, sessanta sculture e altre quaranta opere tra modelli in gesso policromato, disegni e grafiche, sono esposte in uno spazio di trentamila mq., parte al chiuso, parte in un ampio giardino all’aperto, chiamato “colle delle Clematidi”. Vangi scultore Le sculture esposte presentano la sua produzione più recente, toccante testimonianza del maturo fulgore della sua creatività, significativa sintesi della sua lunga e felice carriera. Il protagonista di Per non sentire, del 2005, è un uomo nudo, fragile, indifeso, che si porta le mani alle orecchie in un tentativo (forse vano) di autodifesa nei confronti dei mali del mondo. Lucia (nella foto sopra a sinistra), del 2008, è una scultura in legno di ebano e bosso, estremamente originale e toccante, in cui il rigore della linea e il forte senso dei volumi, amplificano gli effetti emotivi della spontanea semplicità del gesto della fanciulla, anch’essa nuda e indifesa, timida e impacciata, quasi schiacciata da un mondo invadente e aggressivo. Stazzema, del 2008, rievoca l’eccidio perpetrato dai soldati nazisti il 12 agosto del 1944: un uomo, straziato dal dolore, tiene tra le braccia un bambino morto, forse il figlio, chiedendosi (chiedendoci) il perché di tanta violenza inutile e gratuita. Martino, del 2010, unisce il bianco dell’avorio con il bruno del bronzo: Vangi ha spesso creato delle sculture policrome, accostando materiali eterogenei, come bronzo, ceramica, marmo, legno, vetroresina e avorio, non solo come citazione dotta della scultura classica colorata, ma anche come risposta alle sollecitazioni del nostro tempo, così ricco di immagini variopinte. “Utilizzare i colori”, ha detto l’artista, “è per me un gesto istintivo che ho fin da bambino, quando mi cimentavo con qualsiasi materia mi capitasse fra le mani per formare piccole sculture, che poi coloravo. Nel corso della mia maturazione professionale, poi, ho imparato a sfruttare la policromia per ottenere luci e riflessi particolari, per dare profondità dell’immagine e per separare volumi nella continuità di una singola forma.” Veio La scultura rappresenta un motociclista in bronzo, con un elmo greco al posto del casco, in sella ad una vera moto Triumph Tiger 500, che si dirige, lungo una strada lunga poco meno di dodici metri, verso un paesino tranquillo. Il centauro stringe con la mano sinistra il manubrio e tende il braccio destro verso la piccola città sullo sfondo. L’artista ha raddoppiato la mano destra del motociclista per enfatizzare il suo gesto di aggressiva prepotenza e far chiaramente capire agli spettatori la sua volontà di ghermire e possedere la sua preda. L’evidente (e stridente) contrasto tra il moderno giubbotto in pelle e l’antico elmo sta a significare che la violenza e l’istinto di sopraffazione fanno parte della storia millenaria dell’uomo, dall’antichità a i nostri giorni. “Ho voluto rappresentare l’uomo aggressore” spiega l’artista “perché il tema è sempre questo, l’uomo con le sue violenze, le dolcezze, ma anche le ricerche piene d’ansia”. Oltre alla monumentale installazione (complessivamente misura cm 182x142x1130), sarà possibile ammirare, nelle sale della Galleria Farsettiarte, una decina di disegni preparatori, alcuni dei quali di grandi dimensioni, che in primo luogo danno l’opportunità di apprezzare le ottime doti di disegnatore di Vangi e poi ci permettono di capire come nascono le sue sculture, dalla prima idea al suo svolgimento, dagli studi dei dettagli all’evoluzione dell’insieme, fino al progetto definitivo. Come ha scritto recentemente Massimo Bertozzi, “Veio rappresentava per Roma un fastidio e un ostacolo. Un fastidio, perché la presenza, a qualche miglio di distanza, di una città antica, sviluppata e potente riusciva ad appannare il prestigio dell’Urbe; un ostacolo perché, con la sua sola esistenza, metteva in discussione una supremazia territoriale faticosamente conquistata e poteva condizionare le evidenti intenzioni espansive. Veio resistette a tutte le lusinghe e infine a un assedio lungo 10 anni. Poi fu vinta, saccheggiata, ridotta a rovine. L’intenzione di collocare questo moderno “aggressore” sul luogo dove si è consumata la fine di un grande popolo e la nascita di una nazione di dominatori senza pietà, aggiunge alla scultura di Vangi un sovraccarico di suggestioni e di pathos. Quella che abbiamo davanti è una vera motocicletta, messa in forma.” Così Philippe Daverio commenta l’opera di Giuliano Vangi: “Giuseppe Verdi aveva nel 1893 ottant’anni quando compose il Falstaff. Fu con quel magistrale lavoro musicale in grado di reinventare una vena ironica e di porre le basi della musica per il mezzo secolo successivo. Le tensioni armoniche, l’incalzare delle consecuzioni ritmiche, la stessa dimensione teatrale erano per lui medesimo totalmente innovative: l’opera d’un allegro giovanotto carico d’ironia. Fa riflettere il grande motociclista tutto bronzo, motocicletta compresa, che Giuliano Vangi ha inventato anche lui all’età di ottant’anni, lavoro magistrale da giovanotto sia per la fisicità richiesta nel realizzarlo sia per la grinta necessaria a concepirlo. Il suo guerriero antico che agita la doppia mano come in una fotografia di Bragaglia mentre si proietta su un destino forse epico è invero la scultura futurista che al futurismo è sempre mancata. È una scultura “nuova” in tutti i sensi nel parco di Vangi. Ha il coraggio, che raramente si trova nelle opere che circolano fra Biennali e grandi mostre, di narrare oggi una cosa di oggi, d’andare oltre la declinata contemporaneità per diventare attualità. Per essere testimonianza dell’attualità da proiettare nel domani. Ma si porta pure appresso quella faccia feroce che il casco nasconde e che vien dal profondo atavico del toscano che si ricorda di quando i suoi parenti etruschi battevano terre e mari con e contro i greci e gli altri talassici. Il punto comune fra Verdi e Vangi diventa evidente; consiste nel fascino della loro epica. Era facile assai, forse addirittura naturale, essere epici un secolo e mezzo fa quando tutta la società della penisola anelava all’avventura politica che portò al sangue e all’Unità. È difficile essere oggi epico. Lo dimostra la banalità commerciale che impone il mercato globale per consentire una platea di gusto accettabile da tutti. Chi vuole uscire dalla placida corrente, quella rassicurante ma priva di gloria, lo può fare solo con la fuga da un lato nella poesia e dall’altro nell’epos, che altro non è che la poesia portata all’estremo dell’azione. In un caso come nell’altro il buon gusto va abolito. Il buon gusto pacificatore, quello che tutti mette d’accordo. Il buon gusto, abbraccio soffice e soporifero. Vangi non lo ha mai tollerato, e forse in ciò l’essere nato nel Mugello gli è stato d’aiuto. Il toscano, quando lo decide, può essere toscanaccio. Vangi non ha mai esitato. E nell’essere tale porta in sé e con sé quella grinta che sin dagli anni romanici qui s’è sempre coltivata e che fu capace nei secoli successivi di dare spessore alle lusinghe umaniste delle architetture e delle plastiche rinascimentali. Umanista, espressivo, materiale. Vangi s’è occupato da sempre di dare con le mani espressione alla materia. S’è occupato dell’uomo, della donna, nel loro esistere di esaltazione e di dolore, di riflessione e di conflitto. E ha indagato ogni tipo di materia, il legno, il marmo, anzi i marmi dalle mille provenienze, il bronzo, l’avorio addirittura. Vive e trasmette il fascino d’una materia destinata a durare ben più di noi, oltre le contingenze dei nostri anni, forse in una proiezione che reputa l’eternità dell’opera uno scopo raggiungibile. Porta la materia lavorata alla preziosità antica o medievale di chi sapeva che non si sarebbe consumata prima dell’arrivo della Gerusalemme Celeste. Il lavoro dello scultore qui è preceduto sempre da una lunga preparazione. Nulla è lasciato al caso. Disegni precisi al punto da diventare opere autonome sono il percorso propedeutico per approfondire la sensazione e il pathos. L’atmosfera stessa dello studio contribuisce a collegare bozzetti e progetti. La realizzazione dell’oggetto è fatica lunga che parte dalla scelta della materia e si conclude con l’elaborazione delle superfici conclusive. Sicché il risultato rimane sempre una epifania inattesa, una sorpresa mentale e tecnica al contempo. Anche l’ambiguità vi gioca un ruolo trascinante. Tutto è perfetto e preciso, nulla è certo. La comprensione della forma non è affidata solo alla vista, alle ombre e ai volumi, richiede la parte tattile che troppo spesso la scultura recente ignora. È solo toccando che si percepiscono le delicatezze in dialogo con le forze; perché lo sculture invita sornione l’avventore a ripercorrere il percorso che le mani sue hanno plasmato e levigato. La mescolanza sensoriale delle temperature percepite nel toccare la materia, delle finiture guardate e sentite, dei pesi intuiti nella statica, vanno a generare una sensazione di complessità che apre a mille interpretazioni diverse. Il digrignare dei denti s’accompagna alla felicità delle cuti, le stoffe di bronzo fanno da contrappunto agli inserimenti dei metalli preziosi nelle barbe. Ma non è forse il bene più prezioso del creato proprio lui, l’essere umano, straziato o felice, Falstaff o motociclista?”. |
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